Minnie e Mickey: un lungometraggio animato in tre atti

di Susanna Raule

Chiamiamoli Minnie e Mickey, anche se non sono americani e non sono cartoni animati. Per niente. Minnie e Mickey vivono in una città che chiameremo Topolinia, anche se non la è. A Topolinia, per farvi capire, la gente non ha grandi orecchie nere bidimensionali e la continuazione della specie non si basa solo su saldi rapporti di parentela tra zii e nipoti. Inoltre, Minnie e Mickey non sono fidanzatini storici. Sono sposati e hanno tre figli adolescenti.

Mickey non fa l’investigatore e Minnie non va in giro con i mutandoni in bella vista.

In realtà. Minnie e Mickey non se la passano tanto bene. Tre figli sono parecchi, fuori dai cartoni animati, e i soldi scarseggiano. Read the rest of this entry »


E addio mondo

Di Igor Cipollina

A volte penso che vorrei essere una mucca che osserva i treni passare, senza pensieri né intelligenza. Sempre a ruminare lenta, con lo sguardo liquido di chi non sa.

Certo che tira un’ariettina, quassù.

Io invece so, anche se spesso fingo di non capire e fisso un punto nel vuoto. Altrimenti dovrei appiccare il fuoco, oppure buttarmi di sotto. Quando si dice. Read the rest of this entry »


Decrescita per decreto

Di Giovanni Medioli
«No no no, tu vedi la cosa da una prospettiva sbagliata. Tutto qui. Non è la NOSTRA prospettiva. Non è quello che il cliente desidera, anche se dice e magari pensa il contrario. NOI sappiamo bene qual è la cosa migliore per lui, per noi, per la società. E alla fine anche per quei dipendenti e manager che adesso vorresti proteggere, ma che non faresti altro che condannare a un’agonia prolungata, a un errore di paradigma, a un lungo abbaglio. Alla fine sarebbe per loro ancora più doloroso e umiliante…».
Le parole del grande capo suonavano stonate e molto ipocrite alle orecchie di Ato (abbreviazione di Fortunato, una delle due o tre cose che non avrebbe mai potuto perdonare ai genitori e alla loro smania di preservare i nomi della famiglia). Scosse il capo, quasi un po’ incredulo. Certo, non era la prima ristrutturazione industriale a cui prendeva parte. Dalla crisi in poi, in pratica, non aveva fatto altro. Ma in questo caso… L’unità produttiva che aveva visitato era una specie di gioiellino, in fabbrica non c’era una persona di troppo, costi perfettamente sotto controllo, tecnologie all’avanguardia, un portafoglio ordini che saturava la capacità produttiva per almeno tre o quattro anni, magazzini all’osso, modelli quasi tutti recentissimi e in piena espansione, clientela diversificata in mezzo mondo, sindacati collaborativi e maestranze fierissime di lavorare per la Capmac, altri due siti offshore perfettamente integrati, la concorrenza che sbavava solo a sentire il nome del marchio. Che cavolo di senso aveva chiudere un’azienda simile? Il capo doveva aver intuito i suoi dubbi dall’espressione della faccia.
«Il modello produttivo non è sostenibile sul medio periodo. Le tue amate maestranze sono VECCHIE. Cinque, sei anni e l’azienda collassa man mano che vanno in pensione le persone chiave, il marchio si deteriora, perde di valore. Nel frattempo la proprietà si è polverizzata. Il fondatore, come sai, non c’è più. C’è il fratello Giuseppe, bravo dal punto di vista commerciale ma un disastro per produzione e finanza, creatività zero. Il figlio fa tutt’altro, il medico. L’unica cosa che vuole dall’azienda è essere liquidato e farsi i cazzi suoi. La figlia pretenderebbe di essere la creativa di famiglia, ma sai benissimo che ha problemi caratteriali al limite dello psichiatrico aggravati dalla sua abitudine di drogarsi come una bestia, lei e gli amici suoi, coi soldi dell’azienda. Completamente instabile. L’ex marito era un discreto manager, ma dopo il divorzio s’è messo a lavorare per la concorrenza. In quanto a finanza e controllo sai meglio di me che manca un direttore capace, non c’è tesoreria: siamo entrati per quello. Se i fornitori e le banche pretendessero di essere pagati tutti regolarmente l’azienda potrebbe saltare in dieci minuti…».
«Tutto vero», sbottò Ato, «ma le maestranze non sono così vecchie. Abbiamo appunto un orizzonte di cinque o sei anni, nel frattempo si potrebbero innestare risorse fresche e addestrarle senza dissipare una cultura aziendale di prim’ordine. Quanto alla proprietà si sono affidati a noi. L’inserimento di un fondo potrebbe risolvere il problema della gestione finanziaria, di creativi che lavorerebbero volentieri per quel marchio ce n’è la fila fuori dalla porta, possiamo addirittura scegliere. In due o tre anni si potrebbe rivendere tutto a un prezzo decisamente superiore a quello di oggi a qualsiasi gruppo estero interessato o allo stesso management. Il direttore generale non aspetta altro che una proposta del genere».
Era il turno del capo di scuotere la testa con scetticismo: «Confondi i tuoi desideri con la realtà. Ragioni come se l’azienda fosse tua. Ma non lo è. Nessun gruppo italiano del settore ha i soldi in mano, nessun concorrente internazionale si prenderebbe la palla di 700 dipendenti in Italia, oggi, col tasso di litigiosità sindacale, la burocrazia e la tassazione che c’è. Il marchio fa gola, certo, ma si vende molto meglio senza l’azienda. Le maestranze hanno ancora qualche anno di lavoro di fronte? Fantastico, si coalizzino sotto il direttore generale, facciano una bella newco e continuino a lavorare per il brand in conto terzi. Il direttore generale e il management non avranno mai abbastanza soldi per fare un’offerta decente per rilevare la baracca. E come sai, oggi come oggi, non c’è nessuna banca disposta a prestarglieli».
«Ma c’è pieno di fondi specializzati che lo farebbero volentieri…», cercò di obiettare Ato.
Il capo continuava a scuotere la testa: «Prova a pensare che cosa scriveresti tu se dovessi fare una relazione per un fondo. Primo: ci sono troppi manager intermedi. Sotto la guida del fratello del fondatore la rete di vendita è cresciuta al di là delle esigenze reali del marchio. Chiunque compri non vorrebbe fra i piedi una simile palla, meglio ripartire da zero. Idem per il reparto creativo messo in piedi dalla figlia e riempito di amichetti suoi. In tutto ci sono almeno una cinquantina di stipendi pesanti che affossano i conti e tu lo sai. Tutta gente che, in continuità di azienda, andrebbe comunque allontanata negoziando caso per caso. Meglio tagliare tutto in un colpo solo che tentare di gestire un macello simile. Rischi di trovarti con vertenze che vanno avanti anni, le persone più brave che scappano e quelle più rognose che versano sabbia negli ingranaggi assassinando l’azienda. Secondo: i rapporti con i fornitori e i terzisti. Sai che la gestione finanziaria è un disastro, troppi debiti. Se si continua così l’azienda se la prendono le banche e i fornitori, il business sfuma. Dammi retta, si chiude con un bel concordato, si vende il marchio, si aiutano a ricollocarsi quei quattro o cinque manager chiave che possono far bene anche altrove. Le maestranze che hanno ancora qualcosa da dare o si mettono in proprio o vanno a lavorare per la concorrenza. È la soluzione migliore».
«Mi sembra una maniera molto cinica di ragionare. Quell’azienda, in fondo, ha cinquant’anni di storia. Nella zona fanno tutti affidamento sul marchio, sulla famiglia…».
«È ora di crescere per tutti, in questo paese. La mozione degli affetti funziona quando in tasca c’è ancora qualcosa da tirar fuori e da puntare. Qui ci siamo già giocati tutto, le tasche sono vuote e il casinò non ci fa più credito: stiamo vendendo gli arredi. Cinesi e russi pagano ancora bene, meglio approfittarne finché dura».
«Sarà…», disse Ato poco convinto. Lo aspettava una giornata terribile. E lo sapeva…
All’aeroporto di Ancona lo aspettava già il direttore generale in persona, Giacomo Martinenghi, ingegnere cinquantenne piemontese diritto come un palo, con buffi baffi e capelli a spazzola sale e pepe che facevano a pugni con il naso importante, occhiali rettangolari dalla montatura di metallo e orecchie incongruamente a sventola… Era tanto ansioso di avere notizie che era venuto lui direttamente a prenderlo, guidando la macchina come un autista. Il che era tanto più assurdo quanto Ato aveva una quindicina di anni meno di lui…
«Dottor Gandolfi, com’è andata?», gli chiese.
«Non bene, temo», ammise Ato, «il boss spinge per un concordato preventivo e la chiusura. Credo non abbia nessuna voglia di farsi carico delle vostre magagne organizzative, in particolare del management in eccesso e dei debiti verso banche e fornitori… A lei propone di rilevare parte delle maestranze e di fondare una nuova azienda con un contratto di fornitura per il marchio…».
Martinenghi fissava il pavimento con aria avvilita. Evidentemente il rospo era duro da mandare giù, ma da persona intelligente qual era non rinunciò alla battuta: «Soluzione originale, non c’è che dire! Siete la terza società di consulenza che entra in quest’azienda e ci proponete il terzo spin-off produttivo. Sono stati sistemati così anche i due general manager che mi hanno preceduto: peccato che siano stati pagati, se va bene, circa il 180% del valore della produzione che ci hanno fornito nel frattempo. La maggior parte dei debiti derivano da quello… Ma avete pensato che potrei anche non stare al vostro gioco?».
«Ha intenzione di andarsene?», chiese Ato.
«Sono venuto qui a dirle proprio questo. Sospettavo che le notizie fossero di questo tenore e mi sono trovato un’alternativa. In Sud Africa, azienda piccola, stesso settore. Sarà dura ricominciare a cinquant’anni suonati, ma tant’è: qui non resta più nulla da fare. Mi porto dietro una dozzina di persone che hanno un buon know-how. Là saranno accolte come l’oro. So di danneggiare l’azienda ma tanto, se chiude… E poi non la distruggo certo io. Siete voi a chiuderla e la gestione dissennata della famiglia…».
«Sarà dura farla digerire alle banche. Erano loro che avevano imposto la sua nomina agli azionisti. Quando pensa di andarsene? Non potrebbe restare a gestire almeno una parte del periodo di transizione?».
Martinenghi scosse la testa con aria cocciuta: «No, sa. Il mio treno passa adesso, non domani. O ci salgo su o resto a piedi. Fra una settimana sarò già là, se ci rimetto in buonuscita non me ne importa niente, certe occasioni non arrivano due volte. Lei non può sapere quanto mi dispiace per i dipendenti che mi lascio dietro, ma almeno così riesco a salvarne qualcuno. Ma lo sa che state facendo una bella porcata? Cinque, seicento famiglie buttate sul lastrico e perché, poi? L’azienda c’è. Tanto varrebbe farla funzionare. Le competenze ce le avreste anche…».
Ato scosse la testa. «La penso anch’io come lei, ma non ho un’offerta in Sudafrica. Avrei dovuto restare a Londra dopo il master. Pensavo che in Inghilterra fossero troppo aridi, poco umani! Pensavo, pensi che idiota, che in Italia le persone contassero un po’ di più».
«Italia, Inghilterra, Cina… È saltato il tappo. Contano di più i barbari che saccheggiano di chi costruisce. Comandano le cicale, caro lei. Le formiche non si schiacciano neanche più sotto i piedi, si sterminano direttamente con l’insetticida. E, se mi permette, lei fa parte di una bella organizzazione di cicaloni».
Ato aveva un po’ voglia di piangere. A livello umano si sentiva una merda. Ma o così o dava le dimissioni. Oddio. Qualcuno l’aveva anche fatto: Gissi e quella bonona dell’Arabella Smith, sei mesi prima. E sì che si diceva che la Smith la mollasse al capo. Capirai, fatti fuori in dieci minuti. Avevano aperto “una boutique”, una cosa loro, rilevando un paio di aziende coi soldi di un paio di imprenditori amici di famiglia. Per qualche settimana è sembrato anche che ce la facessero. Poi no. Crack col botto, voci di coinvolgimento della criminalità organizzata. Gissi era anche finito dentro per un po’. La Smith si era sposata un megamanager francese e si era eclissata… Essere una gran gnocca con un bel pelo sullo stomaco ti salva facilmente la vita, altro che balle. Beh, certo, poi c’era l’Orsacchiotti, con la sua fattoria…
«Guardi», gli disse Martinenghi, che stava guidando, indicando una bellissima villa antica sulla collina, a destra della strada, «se non andassi in Sudafrica forse mi comprerei quella…».
«Deve aspettarsi una buonuscita favolosa», commentò Ato.
Martinenghi alzò le spalle come per negare l’addebito: «Col cavolo! Ma quella tenuta lì, con la villa Rasoli, è in vendita da quattro anni. All’inizio chiedevano otto o nove milioni. Oggi se contratta un po’ se la porta via con due: ci sono sedici ettari, otto o nove a vigna. Va tutto rifatto, soprattutto le cantine. Ma il vino qui è ottimo… Tre milioni e diventa una delle più belle aziende agricole della provincia. E guardi che di vino me ne intendo, io…».
«Di chi è?», chiese Ato improvvisamente interessato.
«E di chi deve essere? Dei Cappotti. È un indiviso del vecchio Aldo, che se fosse scampato l’avrebbe certamente venduta per fare cassa in favore della Capmac. Invece fra la figlia, il figlio e il fratello stanno riuscendo a farla andare in malora, esattamente come l’azienda. È uno dei beni famigliari su cui cercheranno di rifarsi i creditori e le banche, ma ovviamente la proprietà è ben separata da quella aziendale… Aldo Cappotti era un pazzo per come ha accentrato su di sé tutta la gestione, ma stupido non era…».
«E chi ha in mano la gestione di quella proprietà, in questo momento?».
Martinenghi ridacchiò con l’aria sorniona: «Comincia a interessarle la faccenda, eh? Si da il caso che Giuseppe Cappotti abbia dato il mandato a venderla proprio a me, dopo aver tentato in Internet e con tutte le agenzie della zona. Ma non prima che quella sciroccata di sua nipote ci abbia sperperato dentro quasi mezzo milione per la piscina e la Spa. Roba magnifica e nuova di pacca: l’Alice Cappotti pensava di andarci a fare i weekend con gli amici, poi non ci ha mai messo piede. Ci verrebbe un agriturismo favoloso, in quella posizione. Se la compra lei fa un affarone, molla quelle iene della sua società – o firm, se preferisce il termine – e io oltre alla liquidazione incasso anche la provvigione… Se vuole andiamo su a pranzo, vedrà che panorama!».
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Tre mesi dopo Ato sedeva soddisfatto nel grande salone ottocentesco affrescato di villa Rasoli che adesso era sua. Davanti a lui le carte per l’scrizione a un’organizzazione agricola (Martinenghi suggeriva Confagricoltura, più che altro perché era la più efficiente a livello locale), la documentazione della Camera di commercio per l’avvio di attività di casa vinicola e agriturismo, i progetti degli architetti per le nuove cantine e i lavori di miglioria e adeguamento della villa per l’attività alberghiera (saltavano fuori 8 o 10 camere, i posti letto circa 20), i curricula degli aspiranti alla posizione di enologo (Martinenghi gli suggeriva un piemontese, sua moglie Francesca, di famiglia pistoiese, un toscano), di cuoco (o cuoca), di giardinieri. Ci sarebbero volute almeno una decina di persone per mandare avanti la tenuta: nessun problema per chi, come Ato, si era abituato a gestire aziende con centinaia di dipendenti. Anzi, con la Capmac che chiudeva ci sarebbe stata la fila di persone pronte a mendicare un lavoro.
Francesca e i ragazzi sarebbero arrivati lì da Milano tempo una settimana. I suoi figli (8 e 6 anni) erano già stati iscritti a una scuola locale per l’anno successivo. Anche Francesca avrebbe dato le dimissioni dall’azienda dove lavorava per venire a “dare una mano” nella tenuta: 16 ettari acquistati dai Cappotti, altri tre (di cui uno e mezzo a vigna, con due case coloniche e annessi) da Martinenghi che, in realtà, qualche ragionamento sulla gestione della tenuta doveva averlo fatto, prima di salpare per l’emisfero australe.
Alla fine aveva speso sui due milioni e mezzo. Ce li aveva, cioè quasi. Con la vendita dell’appartamento di Milano avanzava almeno un altro milione per l’avviamento, vendendo anche Madonna di Campiglio e Varazze (ma di questo con Francesca doveva ancora parlare) probabilmente il mutuo necessario a far decollare la baracca poteva stare entro il mezzo milione. Imprenditore agricolo! Suo nonno, che faceva il farmacista in un paesino in Emilia, sarebbe stato fiero di lui. Suo padre, inizialmente, gli aveva dato del pazzo «Chi svolta i ciapp a Milan, svolta i ciapp al pan», gli aveva detto, «capisco fossi andato a Londra, a New York, a Berlino o in Cina… Ma in campagna? Col tuo master alla London School of Economics? Non ti pare un po’ presto a neanche 36 anni?». Poi si era calmato quando aveva visto la tenuta. All’inizio non diceva niente, ma si vedeva che l’occhio gli brillava. Alla fine si era sciolto e aveva ammesso che aveva fatto un affare: «Con la crisi che c’è questa almeno è una roba solida. Poi fra quattro cinque anni, se ti sei stufato, passata la crisi vendi tutto e torni su a Milano. Sì, mi sa che l’hai fatta giusta. Se ti servono quattrini una manina te la potrei anche dare…».
Non servivano, per ora. La piscina, poi! Era chiaramente sovradimensionata per le esigenze della villa, una mezza olimpionica, 25 x 25 metri, a cui si affiancavano due grosse vasche idromassaggio tre per tre, una in esterno e una all’interno della struttura della spa. Ma dalla piscina si godeva un panorama formidabile: da lì lo sguardo spaziava fino al mare. E i vitigni? Una varietà autoctona di sangiovese pregiatissimo: «Potrebbe rifarsi dell’investimento solo vendendo le barbatelle», gli aveva detto il Martinenghi. C’era un monte di cose da fare, ma la vita gli sorrideva…
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Dieci anni dopo, nello stesso salone, Ato pensava che la vita non gli sorrideva più tanto. Fatti i conti non era ancora in rovina, ma la strada era quella buona: e lui i conti li sapeva fare bene… Villa Rasoli non era mai diventata un agriturismo. Giusto il tempo di iscriversi alla Confagricoltura che si era messa di traverso la Coldiretti provinciale, che aveva in mano il racket (come chiamarlo altrimenti?) degli agriturismi. Troppi, in zona. E poi quella villa, con le sue dimensioni e con gli investimenti che portava avrebbe finito per ammazzare il mercato. Dunque, niente agriturismo, la villa poteva diventare bed and breakfast o albergo. La differenza era tutt’altro che irrilevante ai fini fiscali e delle spese. Ma b&b voleva dire al massimo 3 camere e 6 posti letto da affittare, un terzo delle capacità della villa. Non rimaneva che diventare albergo: aveva senso con 10 camere? Gli obblighi di legge si moltiplicavano, così come i lavori da fare e i costi di personale… però di alberghi con una piscina simile (e un campo da tennis, c’era anche quello) in zona non ce n’erano… Certo, non avrebbe potuto dormire lui con Francesca e i ragazzi nella villa come aveva pensato all’inizio, ma c’erano sempre le case coloniche acquistate dal Martinenghi.
Poi erano cominciati i guai seri. Come Ato aveva previsto la Capmac aveva chiuso male, uno shock per la città e il territorio, sindacati sul piede di guerra, occupazione dei capannoni, mesi di presidi e proteste, anche un paio di suicidi drammatici. Il marchio se l’era pappato prima un fondo internazionale, poi dopo un paio di giravolte era saltato fuori che era di proprietà dell’ex capo di Ato, che aveva spostato la produzione in Serbia. Quello che Ato non aveva previsto era di essere associato con la chiusura della Capmac e di diventarne “il” colpevole. Gli incidenti sul cantiere della tenuta erano cominciati meno di tre mesi dopo che era arrivato. Roba che spariva, roba che bruciava, danni. Malgrado le denunce ai carabinieri non avevano mai smesso. I suoi figli, a scuola, venivano additati come “i bimbi di quello là”, derisi, emarginati, picchiati. Francesca non poteva scendere in città neanche per fare la spesa o andare dal parrucchiere: dopo due macchine bruciate e scene poco commendevoli ci aveva rinunciato. Faceva 40 chilometri per andare al supermercato, risalendo fino quasi ad Ancona.
La piscina, un bel disastro. L’albergo avrebbe potuto funzionare grazie a quella. Ma l’Asl (di cui Gianmarco Cappotti, il figlio di Aldo, era uno dei “pezzi grossi”) riusciva a trovarne sempre una per impedirne l’apertura. Aveva dovuto assumere due bagnini e provvedere un servizio di guardia medica permanente, e ancora non riusciva ad aprirla. Aveva anche provato a separare il destino di piscina e Spa da quello dell’albergo: male gliene era incolto. Tre giorni dopo l’inaugurazione arriva la polizia a sirene spiegate. Uno degli istruttori di ginnastica era stato accusato di vendere droga. I titoli sui giornali locali erano stati del tono «Centro benessere sì, ma alla cocaina», «La piscina dello spaccio», «Massaggi e sniffaggi a villa Rasoli». Sei mesi di sequestro degli impianti, autorizzazione all’apertura revocata. Conclusione, si faceva una fatica boia per spiegare a quei pochi stranieri che, irretiti dalle immagini internet, venivano a soggiornare in albergo che la piscina e il centro benessere erano off limits, non si potevano proprio usare.
La villa, che quando Ato l’aveva comperata non era sottoposta ad alcun vincolo. Ma improvvisamente e misteriosamente, dopo l’acquisto da parte sua, era diventato “bene artistico e paesaggistico” e sottoposta a vincoli di ogni genere e tipo, malgrado fosse solo dell’Ottocento. La soprintendenza (per verità senza nessuna spinta particolare da parte dei Cappotti) aveva cominciato a rendergli la vita impossibile. Mesi per ottenere i permessi per qualsiasi minima variazione. Regole assurde che gli avevano imposto di aprire l’albergo con sette camere invece di dieci, con norme contraddittorie che gli imponevano scale di emergenza e uscite di sicurezza ovunque chieste dall’ASL e divieti categorici da parte della soprintendenza di realizzare strutture simili, permessi che non arrivavano mai. Impossibile perfino dare una rinfrescata alla facciata: la soprintendenza non gli aveva mai comunicato il pantone del colore “ammesso”. Una mattina Ato era stato svegliato alle sei e tre quarti dai carabinieri che minacciavano di arrestarlo. Accusa: il taglio di un cipresso malato che rischiava di abbattersi sulla villa, fatto senza chiedere il permesso. Alterazione di assetto paesaggistico protetto, fino a due anni di galera, manco avesse costruito un raccordo autostradale abusivo… Poi, durante uno sterro per una nuova vigna, erano saltati fuori quattro vecchi sassi di un muretto a secco immediatamente dichiarati “reperti archeologici di epoca picena” dalla soprintendenza, avvertita non si sa da chi. Un anno e mezzo senza poter coltivare un tubo su mezza collina, un’enorme escavazione (tutta a spese di Ato, se no la soprintendenza – senza fondi – avrebbe solo bloccato tutto senza far nulla) per poi decidere, altri sei mesi dopo, che forse si erano sbagliati. Tutto ricoperto di terra e amen.
La fattoria, peggio ancora. Sul tavolo campeggiava la lettera di dimissioni del terzo enologo ingaggiato da Ato. Non che il vino non fosse buono. Era di gran lunga il migliore della zona, le cantine, dopo innumerevoli incidenti e ritardi, erano finalmente fatte a regola d’arte. Semplicemente, nella zona, nessuno glielo comperava: anche il consorzio dei vini locali non solo non faceva nulla per la promozione del suo vino, ma remava contro. Certo, era succube delle pressioni di Alice Cappotti, diventata un pezzo grosso della Coldiretti, che si era autonominata nemesi di Ato, colpevole, a suo dire, di aver “rubato” villa Rasoli e la tenuta alla sua famiglia. Villa e tenuta che invece aveva pagato sull’unghia ed erano un pozzo senza fondo di quattrini da buttarci dentro: era andata a finire che casa al mare e in montagna Francesca non glieli aveva fatti vendere. E se le era anche portate via quattro anni prima col divorzio, insieme ai figli, che non vedevano l’ora di scappare da quel posto così accogliente. La cosa più ridicola è che Francesca se ne era andata nientemeno che con Gianmarco Cappotti, nel frattempo diventato primario a Varese…
Il debito con le banche era salito a due milioni. La proprietà era ipotecata ma non troppo. Però non rendeva un ciufolo. Oltre al vino Ato non poteva vendere i foraggi. La piccola stalla modello dove pensava di ospitare una dozzina di mucche per avere il latte per offrire formaggi e lo yogurt freschi di produzione propria, anche quella, era un altro pozzo senza fondo, mai aperta. L’unica volta che aveva provato ad acquistare quattro vacche, queste erano misteriosamente morte quasi subito. Chiaramente gliele avevano avvelenate, ma per l’Usl il sospetto era che ci fosse qualche difetto nell’organizzazione della stalla: analisi, controanalisi, ispezioni, permessi revocati e mai ridati. Anni e soldi buttati.
Aveva provato a far raccogliere le olive da portare al frantoio per fare l’olio. Ovviamente ingaggiando raccoglitori temporanei, come facevano tutti. L’ufficio del lavoro gli aveva piantato una grana che non finiva più: pretendeva che assumesse a tempo indeterminato dei braccianti che lui non aveva mai neanche visto in faccia. Il suo capo-fattore, Brunetti, era allibito: a suo dire una storia del genere non si era mai sentita. Ce l’avevano proprio con lui. Se assumeva una cameriera per l’albergo, tempo tre giorni si faceva male e gli piantava una causa di lavoro per cui gli sarebbe toccato mantenerla tutta la vita. Naturalmente non c’era neppure uno dei suoi vicini e confinanti che non gli avesse fatto causa per qualsiasi ragione, anche la più bizzarra. Lo avevano accusato di tutto, dalla tratta delle bianche all’inquinamento nucleare. Ovviamente tutto falso. Ma da un po’ di tempo Ato era quasi grato ai carabinieri o alla finanza: almeno quando venivano a trovarlo rompevano un po’ la monotonia delle sue giornate. Praticamente non vedeva più nessuno, e se vedeva qualcuno era del posto. E già da un po’ Ato aveva iniziato a trovare insopportabile l’accento locale. Bastava che qualcuno gli augurasse il buongiorno con quella cantilena per dargli sui nervi. Non vedeva l’ora di chiudere quell’affare sballato per andarsene altrove.
Non importa dove: altrove. Qualche offerta ce l’aveva anche. In Australia l’avrebbero preso subito a dirigere uno stabilimento industriale. Sì, certo, tutti parlavano male dell’Australia come paese per andare a vivere e lavorare. C’era gente che conosceva che era tornata in Italia con le pive nel sacco dopo pochi mesi. Ma non avevano provato villa Rasoli!
Naturalmente di vendere la proprietà non se ne parlava: 14 anni dall’inizio della crisi, gli immobili continuavano a essere depressi, i prezzi non risalivano. Lì poi bisognava trovare il pollo che veniva da fuori, come era stato lui. Non fosse bastato tutto ciò, come ciliegina sulla torta il “Decreto Riemergi” contro le aziende in nero, che sovratassava le imprese in perdita, o che dichiaravano utili insufficienti rispetto a fantomatici parametri inventati dal ministero, da più di due anni. Sostanzialmente scontava un incremento di Ires e Irap proporzionale alle perdite e al periodo in cui andava in rosso. Vietato detrarre e dedurre anche i soldi investiti. Ergo: chi mai gliel’avrebbe fatto fare di gettare ancora un solo centesimo in quel casino? Qualcosina suo padre glielo aveva anche lasciato, per fortuna che non lo aveva investito lì. Ma non lo avrebbe mai messo in villa Rasoli. Aveva anche provato a vendere gli arredi e le barbatelle, separatamente. E per poco non lo sbattevano in galera: “Decreto Riemergi” vietava simili pratiche anche se i soldi venivano destinati a ripianare i conti in rosso dell’azienda.
Nel frattempo inglesi, tedeschi, russi, cinesi che avrebbero volentieri investito in proprietà italiane venivano convinti a lasciar perdere l’Italia da articoli a dir poco allarmanti sui giornali e i siti dei loro paesi che raccontavano storie dell’orrore sulle vessazioni burocratiche a cui veniva sottoposto chi aveva l’idea malsana di acquistare una proprietà immobiliare in Italia o, peggio, cercava di rivenderla. Storie che ad Ato ricordavano tristemente la sua, che sembrava una specie di antologia di tutto quello che era stato scritto di negativo sull’argomento.
Villa Rasoli non scontava l’Imu ridotta delle aziende agricole perché era anche albergo. Ma come azienda agricola aveva vincoli di ogni tipo per la cessione. Per fortuna Ato era stato abbastanza avveduto da fare una Srl, da non intestarsi nulla personalmente. Ormai anche Geroldi, quell’insopportabile individuo del suo broker di assicurazioni, gli girava alla larga. Prima compariva ogni due o tre mesi per proporgli insistentemente qualche nuova polizza: e sa Dio se le sudatissime liquidazioni dei danni non erano state una parte fondamentale per rimanere in piedi in tutti quegli anni. Fortunatamente Ato era sovrassicurato, almeno agli inizi. Ma dopo il catastrofico “Decreto Riemergi” Geroldi non si era più fatto vedere. Si limitava a fargli mandare e-mail certificate con la disdetta delle polizze in essere e una formuletta (Ato ormai la conosceva quasi a memoria) in cui la compagnia e la società di brokeraggio unite comunicavano l’impossibilità di procedere al rinnovo della copertura assicurativa in essere. Non c’erano più le condizioni di legge o, detto in altri termini, chi cavolo sarebbe stato tanto pazzo da assicurare aziende condannate dalla legge a sicuro fallimento? Ormai la tenuta era assicurata ancora solo contro gli incendi, i fulmini e poco altro…
Il decreto, a modo suo, era un capolavoro. Partiva dalla presunzione che le aziende in generale, e quelle agricole e turistiche in particolare (Villa Rasoli rientrava in entrambe le categorie) che non producevano utili frodassero lo stato. Dunque dovevano pagare le imposte sulla base di una presunzione di utili prodotti che non aveva nulla a che vedere con i bilanci presentati. In più ogni voce del bilancio andava certificata con documentazioni complesse e costose. Fallire, ovviamente, era molto più facile. Ma con un fallimento o un concordato Ato avrebbe certamente finito per rimetterci ancora del suo.
Un’idea di come saltarne fuori Ato ce l’aveva. Per verità aveva provato a confrontarsi con qualche vecchia conoscenza, avvocati, consulenti esperti. Nessuno aveva voluto immischiarsi: un’altra deliziosa caratteristica del decreto era che i professionisti che fossero risultati coinvolti nella gestione delle aziende “riemerse” venivano considerati responsabili in solido con i proprietari e i gestori dell’azienda stessa sia sotto il profilo civile, amministrativo che penale… In camera caritatis gli aveva dato retta solo un vecchio collega dei tempi della gestione Capmac, Cesare Zerbinott, avvocato specializzato in ristrutturazioni aziendali, che era andato a trovare di persona a Milano («Per telefono no!» gli aveva detto) e che lo aveva un po’ confortato: la sua idea era azzardata ma forse poteva funzionare.
Donare tutto al demanio e darsi alla macchia prima che l’atto venisse perfezionato.
Il demanio non poteva rifiutare le donazioni patrimoniali dai privati salvo gravi irregolarità nell’atto o clausole invalidanti. Fra queste anche le quote o azioni di una società in bonis, e villa Rasoli non era ancora in fallimento. L’importante era sparire subito, per l’appunto in Australia, prima che il demanio potesse mettere al lavoro i suoi avvocati e trovare un cavillo per invalidare l’operazione e soprattutto prima che la banca creditrice facesse opposizione. È chiaro che la banca aveva tutto l’interesse a evitare che il demanio subentrasse ad Ato nel pagamento dei mutui: non avrebbe mai più rivisto i suoi quattrini e non poteva certo chiedere l’escussione dell’ipoteca (cioè prendersi i beni posti a garanzia del prestito) contro lo Stato! Ato aveva appuntamento da lì a tre giorni a Bologna (meglio fare le cose il più lontano possibile, in maniera che non si sapesse nulla: in quel posto anche i cespugli avevano orecchie), da un notaio, per perfezionare l’atto. Perdita secca: circa tre milioni. Guadagno sperato: riprendersi in mano la vita, all’alba dei 46 anni…
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In quel momento qualcuno bussò alla porta del salone. Ma chi? Era domenica, di novembre. L’albergo era chiuso per turno stagionale. Fornitori, neanche a parlarne. Clienti? Ma quali? I dipendenti erano a casa loro, fatto salvo il custode che aveva le chiavi e sarebbe entrato senza bussare. Ato, un po’ stupito, andò ad aprire la porta che dava sul cortile esterno. Di fronte a lui, con una faccia da schiaffi, stava nientemeno che Alice Cappotti in persona, con un miniabito nero di maglia attillato, stivaloni e i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle che sarebbero stati probabilmente più consoni a una venticinquenne che non a una signora con una ventina d’anni di più. Nello stesso tempo, tuttavia, Ato non poté fare a meno di pensare che se tutte le quarantacinquenni fossero state così il mondo, quantomeno da un punto di vista estetico, sarebbe stato piuttosto piacevole. Pazzesco! Dopo almeno 25 anni di stravizi, droga, divorzi, tre figli, vita dissipata Alice era ancora di una bellezza da mozzare il fiato. Alta, diritta, le lunghe gambe affusolate da ballerina della Tv, il seno sostenuto ma proporzionato. Bellissima ma impossibile da gestire: un po’ come villa Rasoli.
Ato stava giusto formulando questi pensieri quando Alice Cappotti, corrucciando il labbro superiore in maniera molto sexy, gli disse con voce roca: «Allora, Gandolfi, capisco che non mi aspettasse. Ma le pare il caso di stare lì con quell’aria imbambolata? Mi faccia entrare che qui fuori fa un freddo becco, oppure mi segua in macchina che almeno è riscaldata!»
«No, no, si figuri, ci mancherebbe», disse Ato, «entri pure! Scusi ma mi ha preso proprio di sorpresa, non aspettavo nessuno…».
«Sì, mi è giunta voce che lei quassù fa una vita molto ritirata», replicò Alice con un sorriso che non prometteva nulla di buono ed entrando in casa a passo di carica, «ma anche che sta per cambiare aria. E anche abitudini, immagino».
Ato era stupefatto. Provò a balbettare qualcosa del tipo: «Di cosa sta parlando? Non capisco a cosa si riferisca…».
Alice Cappotti si diresse direttamente verso una delle due poltrone piazzate davanti al grande camino acceso dove si lasciò sprofondare dopo aver lanciato in terra un po’ a casaccio il suo spolverino col collo di pelliccia e la borsa di montone. Il movimento del miniabito mentre alzava le gambe sopra uno dei braccioli fece intravedere ad Ato per un attimo porzioni delle grazie della signora che di solito non si svelano al primo appuntamento. Lei lo fissava con uno sguardo insolente e, battendo una mano sul ripiano della comoda poltrona, disse: «Su, non fare quella faccia e non stare lì in piedi come un baccalà. Vieni a cecce qui da mammina, che dobbiamo parlare, noi due…».
Andando a sedersi sulla poltrona di fronte con un iceberg che gli pesava sul cuore, Ato provò una difesa d’ufficio: «Non capisco proprio…».
«Altolà, Ciccio», gli disse lei, «inutile che tu faccia la manfrina o provi a recuperare la tua faccia da poker dopo che ti ho sgamato. Non sono qui per giocare a scacchi o agli indovinelli. Se vuoi sapere come lo so, te lo dico: non sono un tipo da indovinelli, io. Sei andato a spifferare tutto proprio al Cesare Zerbinott: tutti – meno te, evidentemente – sapevano perfettamente che ai tempi della liquidazione Capmac era uno dei miei amanti. E in realtà ogni tanto gliela mollo ancora, lui ne va pazzo. E ci credo, con quella lesbicona di moglie che si ritrova! Anche se poi dicono che anche lui penda un po’ di qua e un po’ di là… Comunque sta di fatto che come tu gli hai esposto il progettino, lui è corso da me scodinzolando a raccontarmi tutto, Australia compresa. Probabilmente nella speranza che gliene mollassi ancora un po’. Cosa che ho puntualmente fatto, visto che la notizia meritava. Non sono mica un’ingrata, io, so essere generosa con chi se lo guadagna…».
Che coglione era stato! Ato pensava che per sopravvivere in quel posto di merda bisognava diventare pettegoli almeno come loro, a esserne capaci, altrimenti si rimaneva sempre un passo indietro. Ma adesso la faccia da poker gli era venuta davvero: «Dunque?», chiese.
Alice si mise a ridere: «Dio che aria lugubre! A vederti così, Ciccio, sembra che tu stia per ammazzare qualcuno! Fai quasi impressione… Invece non ammazzi nessuno, perché l’hai appena preso in culo. Il tuo progettino di regalare la tenuta al demanio te lo puoi scordare perché IO non voglio. Se fai tanto di provarci alzo il telefono e spiffero tutto a Carminiati, di Bancatua. Quello che gestisce la relazione con te, il tuo finanziamento. E vediamo se non ha niente da dire del fatto che regali allo Stato un bene ipotecato dalla sua banca per due milioni… A me da retta, vedrai: era un compagno di scuola di mio fratello, mi fa gli occhi dolci da quando avevo 12 anni. Non gliel’ho mai neanche dovuta mollare, con lui basta sventolarla…».
«Molto chiaro. Esposto in termini molto raffinati, soprattutto. Solo che non capisco qual è l’alternativa», disse Ato in tono glaciale.
«Beh, Ciccio- ti dispiace se ti chiamo Ciccio? – sì, vedo che ti dispiace…», riprese Alice, «l’alternativa è quella che ci mettiamo d’accordo, tu ed io, Ciccio. Io voglio indietro villa Rasoli. È mia. Mio padre l’aveva lasciata a me, non importa cosa dicono quegli imbrogliacarte di notai. Tu me la dai indietro con le cattive o con le buone. Anche se…», la voce divenne più bassa e seduttiva, «francamente preferirei con le buone. Ai tempi della Capmac ero una figa spaziale, non come adesso che sono passati anni. Mi sono fatta tutti i consulenti carini che sono passati di qui tranne uno: te. Non te l’ho mai perdonata e ho cercato in tutte le maniere di fartela scontare, in questi anni. Immagino non sia stato divertente…».
«No, neanche un po’», ammise Ato.
«Già, poverino», a questo punto Alice quasi miagolava, «e tua moglie che ti ha anche piantato portandosi via i figli. Devi aver sofferto un bel po’ di solitudine: una donna, qui, non ce l’hai. Se tu ne avessi avuto una lo averi saputo, ti faccio controllare, sai. Se non sei corso a scopare con qualche amante o non sei andato a puttane quelle rare volte che sei andato a Milano devi essere a secco da un sacco di anni. Ti ricordi ancora come si fa? Mi piacerebbe darti un’altra possibilità…».
Ripensando ai fatti di dieci anni prima Ato in effetti ricordava che Alice si era strusciata un paio di volte contro di lui. Fatto a cui ai tempi, evidentemente, non aveva dato la dovuta importanza, attribuendolo più che altro al quasi costante stato di alterazione della donna. «Un attimo, signora. Se ho ben capito lei vuole da me la tenuta. E in cambio mi propone una scopata? Non le pare un po’poco per uno che si è fatto dieci anni di trincea per cercare di tenere in piedi questo posto? Posto che a me personalmente è costato più di tre milioni…».
Alice esplose in una risata omerica, sollevando le gambe e offrendo ad Ato un’altra generosissima sbirciata panoramica: come da manuale non indossava mutandine e il collant aveva una pannellatura con aperture strategiche. Quando si era seduta Ato ne aveva avuto il forte sospetto, adesso ne era certo. «Certo Ciccio», disse una volta ricomposta (ma mica troppo) «che ne hai di faccia tosta! Sei nell’angolo, finalmente dopo dieci anni ti ho inchiodato, e ancora opponi resistenza. Non hai capito: non è che voglio la villa e la tenuta e ti offro di scopare in cambio. Voglio la villa, voglio la tenuta e voglio scoparti: punto. E…», aggiunse con voce più dura, «sarà anche il caso che tu mi soddisfi, se non vuoi che ti rovini. Solo se sarò soddisfatta di te, se saprai essere all’altezza delle aspettative dopo dieci anni che aspetto di prenderti in trappola, ti permetterò di sopravvivere. Non ti caccerò nel freddo inverno, ti permetterò di restare al mio fianco. Facciamo che tu mi sposi in comunione dei beni, così villa e tenuta diventano anche mie. Poi usiamo i TUOI soldi – perché so che ne hai, intanati da qualche parte – per liquidare i debiti della baracca, IO rilancio questo posto che tu non hai saputo gestire e se sarai carino quando sarò stufa di te ti darò la possibilità di andartene, in Australia o dove diavolo vuoi».
«Hmm, sì. Adesso è chiaro», ammise Ato guardandosi le unghie, «ma levami una curiosità, Ciccia – ti dispiace se ti chiamo così? – tanto non me ne importa un cazzo… Com’è che ti è venuto in mente di venire qua su tutta sola a sparare il tuo ricattino? Vabbé che probabilmente come muovi le chiappe lo sa tutta la provincia, ma non hai paura che io possa FARTI qualcosa…».
Alice guardò Ato un po’ stupita, quasi ammirata: «Hmm, sì. Fai il duro. Sei un duro! Mi piacciono gli uomini che non cedono proprio subito, purché non esagerino. Diciamo che il fatto che io sia venuta qui lo sa mezza provincia, è vero, hai ragione, c’è chi fa caso a dove vado e con chi mi vedo. La gente di qui mi idolatra, pensa di odiarmi ma infondo mi adora. Ma una buona dea non si mischia coi fedeli: non mi scopo gente del posto, solo stranieri. Lo sanno tutti. E se tu scendessi qualche volta in paese sapresti che tutti sanno ormai da settimane che io e te ce la intendiamo. A parte te, è ovvio: la voce l’ho messa in giro io. Fammi qualcosa e ti denuncio. Ammazzami e ti beccano prima di subito. Altro che Australia… O fai quello che dico io o sei fottuto, Ciccio…».
Ato si allungò verso il camino per sistemare il fuoco con il pesante attizzatoio di bronzo forgiato: «Ho capito, o ti fotto o mi fotti. Sei convinta che le cose possano andare solo così…», il tono era divertito.
«Perché?», chiese Alice che cominciava a intuire che qualcosa stava andando molto storto, «che alternative ci sarebbero?».
Con un sorriso satanico Ato si alzò facendo roteare il pesante attizzatoio dalla punta incandescente dirigendosi verso Alice: «Per esempio che adesso ti accoppo e do fuoco alla baracca, come in effetti avevo già deciso di fare per incassare l’assicurazione. Se non altro per esserti scopata quella troia di Cesare che era anche il MIO amante fin dai tempi della liquidazione Capmac: hai ragione, pende un po’ di qua e un po’ di là. E no, grazie, non mi sono mai scopato una donna dopo che mia moglie mi ha lasciato, ma non ci sono solo le donne…».
«Non fare lo stronzo: ti beccano subito bastardo di un finocchio! È vero che lo sanno tutti che sono venuta qui da te», urlò Alice balzando in piedi e in preda ad un attacco acuto di isteria, «dovevo capirlo che eri culo!».
«Oh», disse Ato, «metà e metà. Ma tu non mi sei mai piaciuta, troppo troia…», e intanto continuava a far roteare l’attizzatoio con uno sguardo omicida.
Alice, con un balzo felino afferrò la sua borsa (lasciando a terra il soprabito) precipitandosi alla porta che spalancò e attraversò a velocità del suono sibilando un «Ti rovino, brutta checca!».
Dopo meno di un minuto, attraverso la porta spalancata, Ato udì il rombo e lo sgommo dell’auto di Alice che se ne andava a razzo. Appoggiando l’attizzatoio al suo posto di fianco al camino sbuffò di sollievo.
Non gli andava affatto l’idea di doversi macchiare anche di un altro omicidio, pardon, come lo chiamavano adesso di un femminicidio. Perché di omicidi, in effetti, ne aveva già commesso uno. Nella stanza a fianco c’era il cadavere di Cesare Zerbinott, che non era il suo amante. Ma che fosse l’amante di Alice Cappotti, Ato lo aveva sempre saputo. E contava sul fatto che le spifferasse tutto.
In realtà la macchinazione era molto semplice. Ato aveva invitato Zerbinott lì dicendo che gli aveva procurato un abboccamento con Alice, lo aveva ucciso simulando un delitto passionale. Poi aveva fatto vista di andare via, al mattino. Aveva detto al custode che sarebbe arrivato ad Ancona per commissioni e sarebbe tornato la mattina dopo. Ad Ancona ci era andato sul serio e si era procurato dei testimoni. Poi era tornato a casa nel primo pomeriggio nascondendo la macchina dietro la collina senza farsi vedere dal custode. Puntualmente il pesce (Alice), che la mattina di solito dormiva fino a tardi, era caduto nella rete. Era arrivata nel pomeriggio facendosi vedere dal custode e poi era fuggita sconvolta, passando sempre davanti allo stesso custode. E aveva anche lasciato lì il cappotto!
Adesso non gli restava che appiccare l’incendio, come aveva effettivamente pianificato, inscenando un incidente a seguito del litigio dei due amanti e filarsela alla chetichella, tornando il giorno dopo per affrontare vigili del fuoco e polizia. Ad Alice che lo avrebbe accusato non avrebbe creduto nessuno: tutti conoscevano i suoi trascorsi con la droga, sapevano che si vedeva con Zerbinott (il custode sapeva che era ospite alla villa) e Ato aveva una serie di appuntamenti ad Acona la sera, fra cui quello con la sua nuova fidanzata. Il servizio informazioni di Alice lasciava un po’ a desiderare: meglio, si sarebbe contraddetta di più…
Però non si aspettava proprio che gli proponesse di scopare. E, beh, un po’ gli dispiaceva che non potesse più succedere. Infondo Alice gli era sempre piaciuta. Donna impossibile ma molto sexy… Ma così va il mondo.


Molly Malone

di Maura Maffei

Earcán Ó Cadhain era di Dublino. O forse dovrei dire è, perché credo che viva ancora in quella straordinaria città che gli irlandesi chiamano Baile Átha Cliath, anche se sono trascorsi molti anni dall’episodio di cui fui testimone.

Allora Earcán trascorreva ogni anno le sue vacanze estive nel Ciarraí. Non amava il Ciarraí e detestava Cill Airne, la cittadina in cui si costringeva a soggiornare. Prendeva alloggio nella pensione Murphy’s, la prima che incontrava lasciandosi alle spalle la stazione ferroviaria. Non che arrivasse a Cill Airne in treno: no, in Irlanda costa meno viaggiare in omnibus. Read the rest of this entry »


Carriera veloce

Di Susanna Raule // [Commissario Sensi #2]

Sulla sua prima scena del crimine c’erano due uomini che chiacchieravano tranquillamente, a braccia incrociate di fronte al cadavere.

Sasha era già arrabbiata perché ci aveva messo mezz’ora a trovare il posto e dieci minuti per parcheggiare. Non aveva ancora il contrassegno delle forze dell’ordine e quella città insulsa aveva un traffico peggiore di quello romano.

Le avevano detto che la chiamavano Spezia, senza “La”. Forse si nascondeva, voleva passare inosservata o era in incognito. Una città in incognito. Niente male. Read the rest of this entry »


Ultima generazione.

di Silvio Donà

Cosa gli stava succedendo? Perché si sentiva così nervoso?

Era inusuale per un uomo dal carattere tranquillo come il suo.

Baciò la moglie sulla soglia, chiedendole nuovamente scusa.

– Mi spiace Liz… –

– Non fa niente –

– Sicura? –

– Ma sì, davvero. Tutto a posto – minimizzò lei.

Bob abbozzò un sorriso e si avviò verso la station wagon parcheggiata nel vialetto, in cui si accomodò scuotendo la testa. Inserì la chiave e fece girare il motorino di avviamento. La macchina sussultò più volte prima di mettersi in moto.

Era una giornata di sole di inizio giugno, una brezza leggera disperdeva la cappa di smog e mitigava l’afa dei giorni precedenti. In ufficio lo aspettava la solita routine: nessuna grana in vista. Una giornata, insomma, che avrebbe potuto essere splendida. Invece Bob sentiva una strana inquietudine crescergli dentro; una sensazione indefinita, come il rivoltarsi di una tenia, infida e incontrollabile, nelle viscere.

Una specie di… presentimento? Read the rest of this entry »


Maiale all’ingrasso

Di Giovanni Fabbri

Sandro era un uomo mediocre. Quarantadue anni, un metro e sessantatre di altezza e una pancetta tonda che segnalava qualche chilo in più di un semplice soprappeso. Aveva un viso tondo privo di segni particolari, una voce atona e due occhi piccoli e insignificanti. Read the rest of this entry »


La danza della camicia di forza

Di Simone Carabba

«Lasciatemi in pace, andate via!»

Il pazzo si dimena guardando tutti gli angoli alti dei muri.

«Non sono pazzo…io, li sento i vostri occhi che mi guardano. So che tendete le orecchie per captare i miei segreti. Sono tutti chiusi dentro l’anima. Li volete vedere?»

L’uomo apre la bocca e la tiene spalancata per mostrarla ad un ipotetica telecamera, come per far intendere che l’anima sia contenuta nello stomaco.

«Quando arriveranno le formiche a portarmi via, ve ne accorgerete. Ma io sono furbo, i segreti li tengo qui, attaccati al palato e, se volete rubarmeli, li faccio sciogliere sotto la lingua…i segreti!» Read the rest of this entry »


Preda naturale

Di Susanna Raule

Volevo essere un assassino. Se fossi stato un assassino avrei potuto uccidere Bobby Sinclaire, e se c’era uno che meritava di morire quello era Bobby.

Bobby aveva tredici anni, ossia uno più di me, ma a vederlo ne dimostrava almeno sedici. Era il ragazzo più grande della classe e questo, per qualche motivo incomprensibile, ne aveva fatto anche il capo.

Mi aveva odiato fin dal primo istante e le cose, col tempo, non erano migliorate. Il primo giorno di scuola mi aveva puntato addosso i suoi piccoli occhi scuri come se sapesse già chi ero. Era come se mi avesse individuato con un mirino, come se il suo cervellino ottuso fosse in grado di riconoscere all’istante la sua preda naturale.

Ossia, io. Read the rest of this entry »


Un intruso a Casalbano

Di Grazia Gironella

Pomeriggio di pioggia senza genitori tra i piedi, zero compiti per domani e la play già calda: il paradiso deve essere così.
Sono giorni che pregusto questo momento. Sul tavolino ho una coca e un sacchetto di patatine, in caso qualche stupido istinto animale arrivi a intralciare il mio pomeriggio perfetto. È tutto pronto.
Mi butto sul divano e aspetto che il gioco si carichi. Questione di un minuto, non di più; ma in questo striminzito minuto la mia mente riesce a perdersi dietro i pensieri portati da questo giorno di calendario.
Ventiquattro dicembre. Sono cinque anni esatti da quando Remo se n’è andato. Read the rest of this entry »